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Mirabilia

L’episodio rimonta lontano nel tempo, ma non si è mai cancellato dalla mia memoria. A volte ne evoco il ricordo, come Aladino che sfrega la lampa dove è rinchiuso il genio prigioniero.

Sono in un uliveto, voglio mangiare, e sicuramente riscaldarmi, fa freddo nella casa dai muri spessi. La luce è bianca, quella delicata della fine dell’inverno. Gli ulivi sono antichi. Emergono dal suolo come fossero terra fatta corteccia, protuberanze legnose, sollevamenti lenti e sinuosi. Le foglie sono quelle dell’anno scorso, l’erba è scarna, le grosse zolle indurite dall’inverno non sono ancora screpolate attorno ai germogli, le punte dei rami non si sono dischiuse sotto la spinta della linfa. Questo è cio' che ho visto, appena arrivata, e la luce di marzo che bagna tutto come un oceano racchiudendo un arcipelago.
Ora sono seduta per terra, con un frutto e un pezzo di pane tra le mani. E' mezzogiorno, non un soffio di vento, non un canto d’uccello, non un stridore d’insetto, solo questa luce polverosa e tiepida. Non penso a niente. Gusto la polpa succosa di una pera che si fonde nella bocca, mescolata alla mollica rigonfia e alla crosta ben cotta, profumata. Se mai pensavo qualcosa, questa potrebbe essere : certi frutti andrebbero mangiati col pane.  Poi, all’improvviso, sollevo la testa, ho l’impressione che qualcuno mi guardi. Eppure non c’è nessuno, o meglio,  non ci sono che loro, gli ulivi. Scopro che sono disposti in cerchio attorno a me, ma soprattutto sono travolta  dalla loro immensa presenza e dall’infinita densità del loro essere. Nonostante i miei vent'anni, scoppio in lacrime, e il velo sollevato per un attimo sullo sconosciuto, ricade.

Il meraviglioso sarebbe questa sorpresa provocata dal familiare che rivela all’improvviso una dimensione soffocata dall’abitudine ? Anche la chimera nasce dal familiare e puo' associare, ad esempio, squame e piume. Ma questa costruzione fantastica, come pure i suoi eredi, sono soltanto un gioco di costruzione che imbavaglia il familiare col pretesto (o colla pretesa) di scomporlo : sulle sue rovine ricrescono la cecità consueta ed un familiare che si dilegua nuovamente, come ritirato in se stesso, rovescio inimmaginabile della sua apparenza.

Gli ulivi di quel lontano giorno di marzo non erano « solo » ulivi ; lo erano cosi pienamente che hanno penetrato la mia percezione e l’hanno sorpresa, frastornata, quasi spaventata da cio' che con loro e attraverso loro si rivelava : la terra a cui appartenevano, i secoli che attraversavano, gli uomini che li avevano potati, ma anche la montagna all’orizzonte ed il cielo sopra di loro, in maniera che essi erano il volto intravisto, non tanto di cio’ che si chiama oggi « paesaggio » ma di un insieme vivente.
Forse in una società di coscienze sempre più atomizzate il meraviglioso puo’ ristabilire tra  le « cose » - il minerale, il vegetale, l’animale – il legame, la continuità, il senso di una storia condivisa tra loro, noi, e questo « oltre » che non vediamo talmente siamo occupati a sezionare la realtà, come si fa con un cadavere.

La visione di quegli alberi che portavano in se’ la terra, il cielo, il tempo e gli uomini, avrebbe ben potuto essere quella di un sogno. Il sogno, similmente, irrompe, e attinge dal mondo familiare per sovvertire cio' che crediamo conoscere di lui e per distruggere la sicurezza che questa conoscenza ci da. Le farfalle che bevono le lacrime alle palpebre degli uccelli addormentati sono sogni  - che la coscienza ridotta allo stato di veglia scarterebbe – oppure realtà – di cui questa coscienza approfitterebbe -  o ancora  realtà che si sogna, sogno che si incarna e, in un caso come nell'altro, libera in noi una profusione di risonanze, di immagini, di intuizioni che ci scuotono dall’apatia ? Puo darsi allora che sia al limite di questi due mondi, che non sono altro che uno, che risieda il meraviglioso, in una società dove lo sconosciuto è ridotto al repertoriato, il differente al simile, il familiare all’addomesticato, una società che uccide in noi lo sviluppo dell’immaginario con cio’che anche i pubblicistari chiamano concetti.

Un contemporaneo del XX° secolo – secolo disincantato – osservava : « La natura, se lei stessa si conoscesse e se potesse definirsi, elaborerebbe una serie di giudizi d'esistenza. Lo spirito solo possiede la facoltà di rifiutare cio’ che è e di godere di cio’ che non è... »* La modernità che si fonda sul dubbio è precipitata nel corso di questo secolo nell’orrore e nel nulla cosi profondi, che ormai non vi è bellezza che non proietti l'ombra del proprio disfacimento. Ma forse il meraviglioso accetterebbe di risorgere non tanto da cio' che non è, bensi' da cio’ che potrebbe effettivamente non essere e che è, malgrado tutto - o meglio - malgrado noi.

Non ci siamo forse sbagliati nella volontà apparentemente ragionevole di rimanere « ai fatti »? E’ curioso constatare che questo fattuale che decreta tanta impossibilità in nome della realtà, abbia accesso al trono sul quale sedeva un tempo una potenza divina non meno prodiga di divieti. Ancora più curioso constatare che questa sottomissione ai fatti, che conviene all’avidità di alcuni e opprime gli altri nei limiti di un quotidiano impoverito, in senso proprio come figurato, devasti e avveleni la terra stessa e tutto cio’ che la popola, noi compresi.

Puo darsi allora che il meraviglioso sia "l’impossibile " disfatto nell’incontro amoroso che non si attendeva più, nella stretta di mano inimaginabile tra due nemici, nella rivolta di un popolo sottomesso da decenni, nella caduta di un muro che divideva una città, e nella gratuità e la bellezza di un mondo al quale noi permetteremmo di fare vivere i suoi innumerevoli sogni e che, in cambio, ci permetterebbe ancora di cantarlo, non tanto per la sua gioia ma per la nostra.

Anne Guglilemetti

*Cioran, nonostante il suo scetticismo, è affascinato dal mistero della vita ; La chute dans le temps, Paris, 1964.